martedì 27 novembre 2018

Pròstrati al controllo della prostata.

Se vi dicessi "controllate 20 volte al giorno la temperatura corporea, se non fosse di 37 °C venite da me che vi prescriverò degli esami e, se necessario, una terapia", secondo voi sarei un bravo medico? Posso dirvi di no.
E ve lo dico pure con sicurezza.
Sarei bravo se vi dicessi: "se state male controllate la temperatura corporea, se fosse oltre i 38 °C fatemi sapere che deciderò cosa fare".
Perché un aumento di temperatura corporea può dipendere da molti fattori, spesso è una cosa temporanea, senza importanza, senza significato e che non richiede nessun esame né quantomeno terapia, oltretutto un aumento di pochi gradi non ha grande significato, diverso se la temperatura fosse oltre i 38 °C e fosse accompagnata da altri sintomi, si dovrebbe indagare. Va esaminato il caso singolo insomma, uno per uno. Quasi ovvio.
Questo è il lavoro del medico che non deve dirvi "controllate continuamente" ma "ogni tanto controlla, non si sa mai e poi mi farai sapere".

Questo esempio lo faccio perché mi rendo conto che il concetto di "controllo meno per controllare meglio" è difficile da capire, controintuitivo, complesso.
È molto più immediato pensare "se mi controllo tanto eviterò meglio malattie e complicazioni", invece la realtà è l'esatto opposto.
Credo che l'idea del controllarsi "continuamente" sia quasi culturale.
Siamo passati da un'era di completa assenza di controlli (fino agli anni '60 esami e tecniche diagnostiche erano quasi primordiali) ad una (quella odierna, da almeno 20 anni a questa parte) piena di esami, strapiena di possibilità diagnostiche, test per tutto e ospedali sotto casa.
Come spiegare quindi al paziente che il modo migliore di prevenire le malattie è fare i controlli "dovuti" e non "continui"?

Un medico coscienzioso non riempie i pazienti di esami e cure, controlli e terapie vanno fatti solo se servono. Altrimenti vivremmo da malati, saremmo costantemente sotto controllo, senza motivo. Questo potrebbe comportare maggiori spese, stress, esecuzione di esami inutili, a volte dolorosi e rischiosi, terapie inutili, dannose, persino letali.

Questo a quanto pare non vale per gli urologi italiani.

Già in passato consigliavano ogni anno (ogni anno!) a tutti gli uomini oltre i 49 anni, di controllare la prostata con una visita, un'ecografia e un esame del sangue (il dosaggio del PSA, una sostanza prodotta dalla prostata che in passato era considerato segno indiscutibile di malattia prostatica) e quest'ultimo da fare (affermazione totalmente campata in aria) almeno (almeno!) una volta l'anno, di questo ne ho parlato. Il problema è che questa è una bugia scientifica.
Dal punto di vista medico è letteralmente una bufala.
Non capisco il loro ostinarsi nel voler indurre a tutti i costi una "ipermedicalizzazione" delle persone. Capisco la ricerca di pazienti o di guadagno ma c'è sempre un limite che, nel caso dei medici, è molto delicato. Il proprio guadagno (economico o professionale) non deve MAI (in nessun caso) andare contro l'interesse del paziente e se proprio non riusciamo a capirlo si usi almeno il buon senso, non si esageri.

Eppure, nonostante qualsiasi conoscenza scientifica, tutte le linee guida mondiali e persino le stesse società scientifiche di urologia di tutto il mondo, consiglino di non effettuare controlli continui della prostata (non servono, non salvano la vita, possono essere dannosi e persino causare interventi pericolosi e letali), loro insistono e, dopo una campagna che dava consigli avventati, anche quest'anno esce un articolo su una nuova campagna.

Anche stavolta, l'esperto intervistato, consiglia un controllo annuale: "Dopo i 45 anni, una volta l’anno va fatto il test del psa, l’esplorazione digito-rettale e l’ecografia"
Ma non è vero.
Non è vero.

Per non fare confusione riporto le linee guida della società europea di urologia (alla quale quella italiana dovrebbe fare riferimento) che consigliano (pag. 20) un dosaggio del PSA una prima volta a 50 anni e poi ogni 2 anni per chi fosse a rischio e ogni 8 anni (non ogni anno!) per i pazienti non a rischio. Ogni caso deve essere valutato singolarmente. Consiglio confermato dalla società americana di urologia: dosaggio ogni 2 anni o più. Dice la stessa società:

There is evidence to suggest that annual screening is not likely to produce significant incremental benefits when compared with an inter-screening interval of two years.

"L'evidenza suggerisce che il controllo annuale sembra non produrre benefici significativi a confronto di un controllo ogni due anni"



L'affermazione di fare un controllo ogni anno è quindi priva di base scientifica, di validazione, di evidenza, semplicemente non è vera.
L'idea che controllare spessissimo la propria salute sia un concetto sbagliato lo possiamo applicare in questo caso. La salute va controllata quando c'è un motivo o nei tempi previsti dalle singole situazioni (e questo deve dirlo il vostro medico), se tutti noi ci controllassimo continuamente saremmo una società malata senza avere nessuna malattia.

Il "molto tempo" è un concetto aleatorio ed è quindi la scienza, in base ai dati che abbiamo, alle evidenze e alle conoscenze, a dirci a quanto equivale. Non a caso la tempistica dei controlli varia da caso a caso, da una malattia all'altra, da una persona ad un'altra.

Nel caso del Pap test (un esame ginecologico che serve a diagnosticare i tumori del collo dell'utero) questa tempistica è di un esame ogni 3 anni (nelle persone sane e non a rischio di malattia). Farlo più spesso non solo non serve a niente (non aumenta la possibilità di diagnosi) ma espone a rischi (interventi invasivi, ulteriori esami, controlli rischiosi, danni, spese, stress...). Per questo si decide una tempistica utile, che bilanci rischi e benefici, che sia utile al paziente e non ad altri.
Nel caso di prevenzione del tumore alla prostata questa tempistica è stata fissata da tutte le società scientifiche al mondo in 2 anni se si è a rischio, in 8 anni se non si è a rischio (con variazioni da una realtà all'altra ma non esagerate).

Punto. Il resto sono chiacchiere e pubblicità. Che la campagna "a favore" della prevenzione dei problemi prostatici sia sostenuta (da sei anni, dicono nel loro sito) da un'azienda farmaceutica che produce farmaci per la prostata è un dato da sapere.
Il "bello" è che in alcuni giornali si dice, a proposito degli uomini italiani, che sarebbero, secondo un'indagine:
"Poco informati, ma con una certa consapevolezza della propria scarsa conoscenza; disattenti, ma non completamente all’oscuro delle problematiche e dei rischi urologici. È questo il rapporto tra gli uomini e la salute maschile secondo gli urologi italiani"
Qui mi sembra che di scarsa conoscenza ce ne sia da tutte le parti. Alla fine dell'articolo ripropongo un grafico (tradotto da me dall'originale inglese) che forse fa capire meglio perché non conviene "controllare tutti" (ad esempio con lo screening) ma solo i casi selezionati.

Insomma, per chi crede che le bufale siano solo dei ciarlatani e di chi dice di curare con i magneti, beh, eccone una che proviene dalla medicina che si dice "seria".
E ne dico un'altra: non è che i ciarlatani prosperino proprio perché la stessa medicina (seria) ha spesso l'atteggiamento del ciarlatano?

La risposta la lascio a voi perché non posso fare tutto io. :)

Alla prossima!


Su 1000 uomini che fanno il test del PSA, chi ne ha beneficio? E chi danno? Quanti ne salviamo e quanti ne danneggiamo?

venerdì 2 novembre 2018

La sindrome mediterranea.

Nel 2000 coronai il mio sogno umano e professionale di tentare un'esperienza di lavoro all'estero. Per chi, come me, aveva scelto come specializzazione l'ostetricia, andare in Francia era la meta. La Francia è considerata la patria dell'ostetricia moderna e della chirurgia ginecologica e, in effetti, posso dire di aver imparato proprio da loro la maggior parte del mio lavoro.
Quello che era routine in Francia da noi era appena arrivato, le attività pratiche (e per un chirurgo sono fondamentali) erano tante, continue, di alto livello.
Andai a lavorare in un grandissimo ospedale storico (prima per sei mesi nel nord est della Francia, poi in altri ospedali), già l'architettura metteva timore. In stile gotico, la costruzione risaliva all'inizio del 1900 ed era stata la casa di medici che avevo letto nei libri come inventori di strumenti, e classificazioni. Pensate che uno dei primissimi primari di quell'ospedale era stato l'inventore dello stetoscopio (lo strumento che permette di ascoltare il battito cardiaco fetale quando è ancora in utero).

Anche l'interno dell'ospedale era maestoso e quasi un museo. Dipinti antichi, statue di marmo, grandi scalinate e corridoi lunghissimi. Metteva soggezione (e infatti le prime settimane furono per me molto dure, psicologicamente).
Per me stare lì era un'occasione ed ero ansioso di apprendere, pendevo letteralmente dalle labbra di quei colleghi più grandi e esperti, quello che dicevano loro era prezioso e fondamentale.
Un giorno, mentre ero di turno, arriva una signora in gravidanza in preda alle doglie. Agitatissima.
Subito dopo essere entrata si ferma, si piega su se stessa e inizia a urlare. A voce altissima gridava "aiutatemi! Aiutatemi". Era di origine maghrebina.
Io mi avvicinai per cercare di darle una mano e provai, parlandole e sostenendola, di farla avvicinare al reparto così da farla sistemare e riposare. Niente, urlava e si dimenava dal dolore provocato dalle contrazioni.
Mi affrettai quindi, aiutandola, a farla entrare in una stanza dove c'erano delle ostetriche che avrebbero potuto prendersi cura di lei.
Notai che qualche mio collega francese, alla scena, assisteva con un fare un po' sornione. Una collega parlava all'orecchio con un altro e sorridevano assieme. Non capivo.
Quando lasciai la donna in stanza dalle ostetriche tornai indietro e incontrai di nuovo la collega che sorrideva (e lo faceva ancora) così per curiosità le chiesi: "ma perché ridi?"
Lei mi rispose più o meno: "non sai riconoscere la sindrome mediterranea? Eppure sei italiano..." e continuò a sorridere.
Io rimasi un po' perplesso.
Non conoscevo questa malattia, conoscevo l'anemia mediterranea, forse si riferiva a questa? E che c'entrava? E soprattutto che c'era da ridere?
Così non risposi e rimasi tutto il giorno con il dubbio della sindrome mediterranea.

Mi convinsi quasi subito che quella donna avesse qualche particolare che facesse sospettare la sindrome e che magari in Francia si chiamasse così ma da noi, in Italia, avesse un altro nome. Certo che ero curioso ma ero troppo preso dal lavoro per approfondire.
La sera consultai anche un libro ma non trovai traccia di questa misteriosa sindrome, internet non dava risultati e non avevo nemmeno il tempo di stare ore davanti al computer.
Passarono pochi giorni e durante il giro di visite in reparto, dopo aver controllato le donne operate il giorno prima, arrivati al letto di una di esse che si lamentava particolarmente, il primario disse: "datele un po' di morfina, questa è sindrome mediterranea".
Eccola di nuovo la misteriosa sindrome.
La sindrome mediterranea, malattia per me sconosciuta, era stata diagnosticata per due volte in pochi giorni, magari in Francia era comune, ecco un'altra cosa da imparare. Sicuramente dovevo approfittarne per capire, ero lì per quello.
Così in pausa pranzo, a tavola con alcuni miei colleghi, chiesi con tranquillità: "ragazzi ma qual è la sindrome mediterranea? In Italia la chiamiamo in qualche altro modo...".
Si guardarono per pochi secondi e scoppiarono tutti a ridere.
Non capivo.
Iniziai a capire dalle loro spiegazioni.

La sindrome mediterranea, per i francesi, è una forma razzista, vaga e senza basi mediche, per definire le persone che si lamentano eccessivamente (secondo i medici francesi) e che hanno origini mediterranee. Riguarda quindi proprio noi italiani, gli spagnoli, i greci ma anche gli originari del nord Africa (marocchini, tunisini, algerini), tantissimi in Francia.
Secondo i colleghi francesi noi saremmo particolarmente esagerati, spettacolari, quando dobbiamo dimostrare un nostro disturbo.
Se abbiamo un dolore urliamo, se ci gira la testa sveniamo, se abbiamo mal di gola non parliamo più, dimostriamo al mondo la nostra immane sofferenza mentre i "nordici" sono più chiusi, composti, meno esaltati. Noi italiani (e i "colleghi" che nascono vicino a noi) saremmo maleducati anche nel dolore. Questo perché noi che ci affacciamo sul mare siamo un popolo esagerato, teatrale.
È una cosa che non sa nessuno fuori dai confini francesi.
Non ci potevo credere.
Non si trattava di una malattia ma di un pregiudizio.

In Francia lo conoscono benissimo.
Ce terme désigne un comportement d’exagération des symptômes de la part d’un patient et ce, du fait de ses origines et de sa culture. Et l’on retrouverait donc ce syndrome chez les populations du pourtour méditerranéen (Italie, Espagne, Portugal, Maghreb). « C’est ce qu’on appelle – entre nous, quand le patient n’est pas là – le syndrome méditerranéen»
 "Questo termine indica un comportamento di esagerazione dei sintomi da parte di un paziente per le sue origini e la sua cultura. Questa sindrome la troveremo quindi nelle popolazioni del bacino mediterraneo (Italia, Spagna, Portogallo, Maghreb). "È quello che si chiama tra di noi, quando il paziente non ci ascolta, sindrome mediterranea""

Io, medico italiano, non ho mai visto una persona lamentarsi "troppo" o esageratamente in maniera legata alla sua origine etnica, senza dubbio il marocchino si lamenterà "come un marocchino" e un inglese lo farà "come un inglese" (nel senso che parlerà nella sua lingua, userà espressioni tipiche, così come gesti tipici della sua cultura) ma il dolore è dolore, per tutti ed è una cosa molto soggettiva per poterla generalizzare. Forse quando ci sono vissuti particolari, situazioni delicate, forse c'è qualche componente emotiva che può esagerare le manifestazioni ma non c'è sicuramente un "dolore regionale".
Ci sono italiani che esagerano, stranieri che non dicono una parola e viceversa.
Come detto il dolore è un sintomo molto soggettivo (ed un medico sa che giudicare un dolore è molto difficile).
Ho visto donne con un parto imminente lamentarsi di "qualche fastidio" ed altre con una contrazione ogni 5 ore urlare disperate. Il dolore non dipende dall'età o dalla razza di chi lo sopporta. Persino uno studio sembra dimostrarlo anche se con le difficoltà di un tale esperimento: provocare dolore in varie persone di etnie diverse, suscita la stessa risposta in tutti, indipendentemente dall'etnia o dalla provenienza e per essere più precisi, se piccole differenze possono esserci queste sono legate al contesto culturale ma non possono dirci nulla sul tipo e sull'intensità del dolore che, quando c'è, è uguale per tutti.



Al medico non è dovuto il "giudizio" sul paziente e su quello che lui sente o percepisce ma solo il giudizio sulla malattia, sul sintomo e sul disturbo.
Non per niente un medico non dirà mai "ha un dolore forte" ma "riferisce un dolore forte" perché solo il paziente può sapere se il suo dolore è sopportabile, forte, leggero o angosciante.

Questa storia della sindrome mediterranea mi colpì molto. Non solo per la sua evidente base razzista ma anche perché per i francesi noi italiani siamo "esagerati" mentre probabilmente per qualche italiano del settentrione del paese sarebbero esagerati i meridionali e per i meridionali i nordafricani e, dovete sapere, per i nordafricani sono quelli dell'Africa centrale gli esagerati (anche questo lo scoprìi in Francia).
Il razzismo ha pregiudizi che si alimentano a catena, ci sarà sempre qualcuno che sarà razzista nei tuoi confronti.
Per questo spesso, a chi dimostra razzismo contro una particolare popolazione, ricordo che se un giorno qualcuno vorrà essere razzista nei confronti di lui non ci vorrà uno sforzo particolare.
Si può essere razzisti nei confronti dei calvi o degli obesi. Degli ignoranti o dei poveri. C'è sempre un motivo (stupido) per essere razzisti nei confronti di qualcuno perché disprezzare qualcuno ci fa sentire migliori di lui.
Se qualcuno ci tratta da ultimi, disprezzare qualcun altro ci fa sentire penultimi.
Anche per questo il razzismo è stupido, non solo non ha ragione di esistere ma non conviene a nessuno, nemmeno al razzista.

Voi direte: ma che c'entra questo con MedBunker?
C'entra per tanti motivi.
Intanto è un pensiero che è nato durante la mia professione e poi mi è tornato in mente perché in questi mesi, in Francia, si è parlato proprio di questo.
Siamo a dicembre 2017, quando una donna di colore si lamentava di forti dolori "alla pancia" e si rivolge telefonicamente al SAMU (in nostro 118) per chiedere aiuto.
La donna, trasportata in ospedale, morirà nel pomeriggio per shock emorragico.

Il problema è nato quando un giornale locale ha diffuso le parole tra la donna e l'operatrice del centralino del servizio di emergenza medica. Mentre la donna si lamentava con voce flebile di avere "mal di pancia", "dolori dovunque", l'operatrice perdeva tempo. Alla frase "sto morendo" l'operatrice rispondeva: "certo signora, un giorno morirà come tutti".
Poi la voce al centralino si allontana e dice a qualche collega "dammi il numero, la signora che ho al telefono dice che morirà e certo, morirà come tutti" e la rimanda ad un altro servizio sanitario e non alle ambulanze con inevitabile perdita di tempo. Questa perdita di tempo sarebbe stata decisiva nella tempestività dei soccorsi. In seguito alla scoperta delle parole dell'operatore del centralino, questo è stato sospeso.

Il sospetto è che si sia trattato proprio di un caso di "razzismo medico". Da qui il dibattito sulla fantomatica "sindrome mediterranea" con la scoperta di tantissimi casi, tutti sottovalutati su pazienti stranieri o di etnia non europea che per gli operatori sanitari "esageravano" o "fingevano". Altre volte può essere una lezione per chi, operatore sanitario, sottovaluta sintomi e descrizioni fornite dai pazienti (qui mi rivolgo ai giovani colleghi: non sottovalutate MAI nessun segno, giudicate a posteriori non a priori).

Certo, a volte si tratta di "normali" errori medici. Per chi fa il medico è storia quotidiana imbattersi in chi, al pronto soccorso, sembra esagerare i sintomi e spesso è così ma il pericolo si nasconde quando non lo è. Questo è un ostacolo, capire fino a che punto sia allarmante un sintomo è difficile. Se però l'operatore sanitario aggiunge un altro ostacolo, pericolosissimo, il proprio pregiudizio, espone il paziente ad un problema grave e se stesso ad un errore gravissimo.

Non sembra comunque un problema che riguardi noi italiani ma probabilmente lo riguarda indirettamente perché mostra come i pregiudizi, soprattutto quelli culturalmente radicali, non sono solo stupidi ma possono essere anche pericolosi.

Alla prossima.